Come ognuno di voi, anch’io negli anni ho provato a fare il meglio possibile, con le mie capacità e i miei interessi. Non vi sto a tediare sui mipiace-nonmipiace ma dirò solo una cosa, che se dovessi selezionare un oggetto che amo e che sintetizzi molti dei miei interessi e alcune capacità, vi racconterei di un paio di forbici.
Grazie alle forbici ho cominciato a tagliuzzare i primi tessuti, sfibrandoli ho capito come stavano insieme e da lì il provare a ricostruirli. L’analisi del loro intreccio mi ha insegnato a sviluppare una capacità che non mi è innata, la pazienza. Nel periodo dell’Accademia, prima, spesso usavo le mie forbici per tagliare capelli ad amici e coinquilini ricompensata da altre paia di forbici.
Ne porto sempre con me un paio, non si sa mai, anche quando prendo l’aereo c’è posto per un paio mignon a forma di penna, superando i controlli.
Ogni volta che taglio un pezzetto di carta, anonimo e dimenticato da tutti, specialmente quelli sopra i 170g, di scadute comunicazioni cultural-turistiche, per me è un gran piacere sensoriale, lo scricchiolio crepitante delle forbici che avanzano nella carta è impagabile.
La forbice è come un bel pennarello Sharpie o un carboncino, ho sempre creduto che essa potesse rappresentare un ponte per me percorribile tra il progetto e la sua immagine compositiva analogica, e la produzione-riproduzione digitale.
Nella mia professione di textile designer, schiava di programmi digitali con propensione quasi amorosa a quelli vettoriali, esiste una divertente similitudine tra tagliare linee vettoriali, sforbiciare pixel con il tagliare vero e proprio. E il tagliare è sempre la prima cosa che faccio quando mi metto al lavoro, ed è un mezzo importante di creatività per sviluppare idee e composizioni, in modo immediato e capace di restituire efficacemente la mia visione e i suoi protagonisti.